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Morire di dolore

Eridan Kellici

 

 

 

 

Le notizie che abbiamo appreso un po’ di tempo fa mi hanno fatto molto riflettere sul significato della vita e della morte e sul significato che tali concetti stanno assumendo nei giorni nostri. 

Sto parlando della morte di Tahar Mejri il padre che si è lasciato morire dal dolore dopo la scomparsa della moglie e del figlio di quattro anni morti durante l’attacco terroristico a Nizza nel luglio 2016. 

La seconda notizia è la morte di Noa Pothoven, la ragazza olandese che ha scelto l’eutanasia per porre fine alla sua fine, un’altra tragedia che ci sconvolge tutti per lo svolgimento dei eventi verso la morte. 

Non sarò qui a scrivere degli aspetti drammatici e etici che parlano da sé in queste due tragedie le quali, per quando sembrino lontane una dall’altra, hanno una conclusione tragicamente simile.


Cercherò di buttare giù qualche idea e qualche ipotesi guardando queste situazioni da un punto di vista psicopatologico, per quanto lontano una dall’altra possano sembrare. 

Le mie impressioni e osservazioni si baseranno sulle informazioni ottenute dai giornali e dai telegiornali, i quali hanno rivelato alcuni elementi traumatici della vita di queste persone, saranno ipotesi molto limitate, non sapendo molto del passato di tale persone.


La vita di Noa e di Tahir è stata travolta e sconvolta da eventi fortemente traumatici e profondamente dolorosi. Se Tahir perde la propria famiglia in un attacco terroristico, Noa perde un parte di sé in un attacco alla sua persona che finisce in una violenza sessuale. 

Questo attacco che loro affrontano è talmente forte che si trasformerà in un attacco interiorizzato che porterà verso la loro autodistruzione.


Queste due persone, malgrado il loro volere, si trovano a dover fare i conti con la perdita

E perdita vuol dire lutto. 

Lutto vuol dire immergersi in un mare di dolore con la capacità di riemergere. 

In queste tragedie quello che colpisce l’anima è la resa al dolore, questo dolore che non trova via d’uscita e li porta sempre più giù nella sua immensa profondità. 

La vita di per sé non trova ragioni per essere vissuta.


A livello psicopatologico possiamo dire che queste persone si sono fossilizzate in uno stadio di lutto patologico. 

Parliamo di lutto patologico quando esso non viene elaborato, dando origine ad una condizione patologica, invalidante e persistente in cui queste emozioni negative continuano ad essere esperite, compromettendo significativamente il funzionamento del soggetto. 

Nei casi più complessi, alla perdita possono conseguire reazioni emotive compatibili con quelle del disturbo da stress post traumatico, caratterizzate da pensieri e ricordi intrusivi, iperattivazione fisiologica, fino ad arrivare a sintomi dissociativi, oppure con quelle del disturbo depressivo maggiore, nel quale prevalgono invece sentimenti di disperazione, tristezza, paura ecc. (come dice Laura Pizzacani in Quando il lutto diventa patologico: il lutto complicato secondo il DSM-5, articolo pubblicato il 23 novembre 2017 su State of Mind – Il giornale delle scienze psicologiche. Per saperne di più: www.stateofmind.it/2017/11/disturbo-da-lutto-persistente-e-complicato/)

Se consideriamo le cinque fasi del lutto (negazione, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione) sembra che loro, Tahir e Noa, siano rimasti nel primo stadio, quello della negazione, senza avere la possibilità di elaborare gli stadi successivi e, tra l’altro, hanno vissuto con una profonda depressione questa fase. 

Ho considerato i vissuti di Noa come perdita anche se il suo vissuto di violenza possa essere considerato un disturbo post traumatico da stress.


Un’ipotesi può essere che il loro vissuto sia stato pieno di sensi di colpa per quello che era successo e che li porta a colpevolizzarsi, ma anche il senso di colpa del sopravvissuto (questo può essere più appropriato alla storia di Tahir).


Se vogliamo essere critici,gli aiuti dati a queste persone sono risultati fallimentari. 

Mi chiedo quali tipi di aiuto queste persone abbiano ricevuto e di quali abbiano usufruito per alleviare il loro dolore. 

Se abbiano ricevuto un adeguato aiuto psicoterapeutico e se la loro rete sociale sia stata abbastanza adeguata per poterli aiutare a vivere.


Mi sono fatta l’idea (probabilmente sbagliata?) che sono state persone che si sono sentite profondamente sole nei loro vissuti, e la solitudine può anche uccidere. 

Non vedendo una ragione per cui vivere, la morte diventa una via d’uscita. 

Paradossalmente hanno scelto una morte lenta che consuma la vita piano piano. 

Nel loro animo, usando le parole di Freud, il Thanatos, le “pulsioni di morte” avranno preso il sopravvento mentre le “pulsioni di vita” si spegnevano lentamente.


Sottolineo l’idea che la loro morte è una denuncia per la loro vita non vissuta, è un’accusa alla società in cui viviamo che continua a lasciare sole e in balia del proprio dolore le persone sofferenti. 

Ma soprattutto la loro morte è un fallimento: nell’anno duemiladiciannove la vita sembra aver perso il suo valore e il suo significato più profondo, la possibilità di essere vissuta con la consapevolezza che il dolore, anche quello più profondo, esiste, ma da tale dolore si può guarire.

 

 

 

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